Racconto di Micol Gaspari di S. Ambrogio di Valpollicella (VR), premiato per la sezione 11-15 anni del Premio Montagnav(v)entura 2014.
I raggi della grande fonte di luce di questo mondo mi riscaldavano la pelle, che a momenti era scossa da piccoli brividi dovuti al fresco venticello che aleggiava sempre per quei luoghi. Lo scricchiolare dei sassi sotto le suole dei miei scarponi, costituiva una costante melodia che mi faceva proseguire il percorso senza rendermene conto. Ogni tanto mi soffermavo o a guardare il cielo, o ad osservare le gocce di rugiada rimaste su dei fiori ancora nascosti all’ombra di un grande abete. La voce di Luca mi distolse dai miei pensieri.
“Bene ragazzi, ora …Osservate queste piccole fragole di bosco. Alcune sono ancora chiare ma ce ne sono già di rosse e mature…Bene, mani all’obiettivo! Mettete ovviamente lo scatto manuale e avvicinatevi, aumentate o diminuite i tempi di posa in base al risultato che volete ottenere. E mi raccomando: fate sempre almeno due foto!”.
Mi avvicinai anch’io ai piccoli frutti e provai a fare due o tre scatti; mi piaceva l’effetto che producevano i tenui raggi di sole quando incontravano la rugiada appoggiata su tanti elementi del sottobosco. Prima che il gruppo ripartisse colsi l’occasione di fotografare anche un cespuglio ricco di lamponi; dopo aver preso una foto dei suoi carnosi grappoli rosati dalla superficie vellutata, ne staccai uno e assaporai il loro gusto acidulo. Mi ricordava di tutte le escursioni che avevo fatto in montagna con la mia famiglia, mio padre amava da sempre l’alta quota e non appena si presentava l’opportunità ci portava con sé. Il gruppo si muoveva, così lasciai i lamponi per seguire i consigli di Luca, l’istruttore del corso di fotografia cui stavo partecipando da alcune settimane e che, in vista delle vacanze estive aveva organizzato questa gita di due giorni sulle Dolomiti d’Ampezzo. Ero orgogliosa di essere lì, oltre ad amare la fotografia e l’aria aperta stavo realizzando uno dei sogni di mio padre; certo non stavo immortalando paesaggi mozzafiato dall’alto di un elicottero, ma era sempre qualcosa: istanti, scene, ricordi delle sue adorate Dolomiti.
Ormai era da qualche ora che girovagavamo per le pendici di questa imponente catena montuosa; dopo una pausa a metà giornata avevamo ripreso il nostro percorso. Ora ci soffermavamo su un fiore, ora sul particolare di un abete, ora su un ruscello. Stavo impostando la mia macchinetta per fotografare una ragnatela, che nonostante l’ora ormai tarda, era ricoperta di piccole gocce d’acqua; quando attraverso l’obiettivo mi accorsi di un rapido movimento. Non era nella zona messa a fuoco, quindi non ero sicura di quello che avevo visto, ma ero certa che là nel folto del bosco ci fosse stato un qualche animale che mi osservava. Combattuta tra il seguire il gruppo o quel misterioso abitante del luogo, mi inoltrai nel bosco.
Ero estasiata all’idea di trovare un capriolo o magari uno stambecco. Già immaginavo l’espressione di mio padre. Affrettai il passo, pur cercando di non fare troppi rumori, consapevole della fauna che, nonostante fosse ben nascosta, regnava su questi boschi. Dopo molta fatica e qualche scatto mi arresi; evidentemente quello che avevo visto non era ciò che pensavo, ma non persi l’occasione di mettere in pratica le cose che avevo imparato. Nelle mie foto ripresi piante particolari, cortecce scorticate e, con grande fortuna, anche uno scoiattolo che correva su di un ramo.
In seguito mi accorsi che la mia felpa non bastava più, brividi mi correvano su e giù dalla schiena; guardai l’orologio e purtroppo mi resi conto che era passato troppo tempo, ormai era sera inoltrata e se non volevo rischiare di finire nei guai dovevo assolutamente trovare gli altri. Così misi via la macchinetta e ripercorsi i miei passi; con il trascorrere dei minuti però mi rendevo conto di non essere nel posto giusto… “Serena, perché hai lasciato il gruppo? Perché??” continuavo a ripetermi. Presa dallo sconforto mi abbandonai ai piedi di un abete rosso e chiusi gli occhi. Era incredibile quanta stanchezza avessi accumulato in quei pochi minuti in cui mi ero resa conto della mia situazione. Mi stavo lasciando andare al sonno quando un rumore mi scosse dallo stato di torpore in cui ero caduta; con lo sguardo corsi per il bosco che mi si trovava davanti in cerca di qualche segno di vita: niente. Stavo per richiudere le palpebre quando vidi uno strano gruppo di campanule blu che riconobbi all’istante: “Ma certo! Sono quelle su cui mi ero soffermata dopo aver lasciato il percorso! Quindi ormai ci sono!”. Ripresi coraggio, mi alzai e per ritrovare la retta via mi aiutai scorrendo le foto che avevo raccolto in quella lunga giornata. Giunta al sentiero lo percorsi in preda alla gioia, pur stando attenta a non farmi del male.
Dopo circa un’ora arrivai al campeggio dove avremmo dovuto trascorrere la notte. Tutte le luci erano spente e la reception ormai aveva chiuso da tempo, così presi il cellulare per chiamare Arianna, una ragazza del gruppo di fotografia con cui avevo fatto amicizia durante la mattinata, ma purtroppo questo era totalmente scarico. Mi sembrava ovvio che non potevo mettermi ad urlare per trovarla, perciò feci l’unica cosa che mi sembrava fattibile: corsi per le varie piazzole e rubai qualche asciugamano dagli stendini posti all’esterno di alcuni camper e roulotte, non erano coperte certo, ma un po’ di calore lo avrebbero trattenuto. Con i denti che tremavano per il freddo e gli asciugamani sotto braccio entrai nel bagno comune del campeggio, dove per fortuna si trovava una grande panchina di legno con dei cuscini su cui mi sdraiai immediatamente. Sfinita dall’avventura spericolata che avevo intrapreso e con la macchinetta stretta tra le mie braccia, caddi in un sonno profondo.
La mattina, quando riaprii gli occhi, mi trovai davanti due grandi occhi grigi che mi osservavano, ci misi qualche minuto per capire che quel viso paffuto e tondeggiante circondato da un’incolta barba grigia apparteneva a Luca. Gli raccontai tutto quello che era successo e subito lui chiamò i miei genitori e i soccorsi per tranquillizzarli, dicendo loro che stavo bene e che ero solamente un po’ infreddolita.
Stavo seduta sul vecchio divano beige da circa mezzora a subirmi la meritata ramanzina di mia madre. Lei aveva il viso paonazzo e continuava a gesticolare. Io, le mani intrappolate sotto le cosce e i piedi incrociati che dondolavano, ormai non l’ascoltavo più, mi limitavo ad annuire ogni volta che lei diceva “hai capito?”. Certo aveva ragione lei, ma non sapeva cosa avevo vissuto nel bosco, ero consapevole di aver rischiato molto ma anche di aver immortalato scene che non avrei mai potuto vedere su un comune sentiero. Quando ebbe finito mi mandò in camera, dove giurò che sarei rimasta per tutto il resto della mia vita.
Sdraiata sul letto ascoltavo il rock degli anni ’60, quando mio padre entrò di soppiatto; mi sgridò anche lui ma vedevo che non riusciva a trattenere il sorriso, infatti dopo poco disse: ”Su, fa vedere tutto, non voglio perdermi neanche uno scatto!”.
Adoravo mio padre.
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