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Speciale Montagnav(v)entura 2015 La figlia della montagna
Racconto

LA FIGLIA DELLA MONTAGNA

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di Marta Balma

Mi chiusi la porta alle spalle con uno scatto secco. Lasciai cadere la borsa sul pavimento e senza neppure togliermi le scarpe mi lasciai cadere di faccia sul letto. Rimasi così, con la testa affondata nel cuscino a riflettere per l’ennesima volta.

Avevo finito l’università da poche settimane; mi ero laureata con un buon voto, avevo festeggiato con gli amici più cari e tutti i parenti più prossimi. Mi ero goduta quel tanto agognato momento di libertà, sollevata dal peso di libri, scadenze ed esami. Poi, però, era iniziata la parte più difficile, quella alla quale non pensi nell’immediato: il “dopo”. Il “dopo” era fatto di un’unica domanda, ripetuta infinite volte da chiunque incontrassi che mi conoscesse: << E adesso cosa farai? >>.

Non appena rispondevo che avrei cercato lavoro nei dintorni, partiva l’occhiata scettica e il sorrisino di circostanza di chi la sa più lunga: << Trovare lavoro qui? E’ tutto fermo! Vai all’estero ché ti conviene. >>. Questo era il tipico commento al palesarsi delle mie volontà, o almeno lo era nel novanta percento delle volte. Il restante dieci si concludeva con un caustico “in bocca al lupo”. Il peggio però arrivava per ultimo. Quando infatti affermavo di non voler andarmene via, la questione era sempre la stessa: << Perché vuoi restare qui? Non c’è niente: questa città è morta! >>.

Ed io non sapevo mai cosa rispondere. Non sapevo cosa dire agli altri per fargli capire che “qui” non era poi così male. Che io mi trovavo bene nel mio “qui”.
Amareggiata da quei pensieri, voltai la testa verso la finestra della mia camera e rimasi a fissare quel paesaggio famigliare che aveva accompagnato le mie giornate fin da bambina, finché non mi addormentai. A svegliarmi, ore dopo, quando ormai la notte era calata, fu la sensazione di non essere più sola in camera, quello strano formicolio che ti prende quando qualcuno ti sta fissando. Raddrizzandomi a sedere, lo sguardo mi cadde su qualcosa che non sarebbe dovuto esserci, anzi, che non sarebbe nemmeno dovuto esistere.

Seduta sulla mia scrivania, infatti, c’era una strana creatura che mi fissava. Era alta e longilinea, dalle fattezze di donna. I capelli chiari erano un groviglio di foglie e fiori e la pelle, illuminata dalla luce asettica dei lampioni sulla strada, era liscia e lucente, quasi granitica come aspetto.

<< Cosa sei?! >> esclamai, ritraendomi verso la testiera del letto.

<< Io? Io esisto da molti anni, innumerevoli; si potrebbe dire che io esista da sempre, da quando la coperta del mare si è ritirata dandomi l’opportunità di cominciare la mia vita. Il mio nome lo svelerò solo alla fine. Ora non è importante. >> replicò la figura sorridendo.

I suoi denti erano talmente bianchi da risultare perfettamente visibili anche nella penombra della mia stanza. Se non fossi stata certa di star sognando, mi sarei messa ad urlare come un’ossessa, lanciandole contro probabilmente anche la sveglia del comodino.

<< Perché sei qui? >> domandai invece, con la segreta speranza di non essere finita nel celebre racconto natalizio di Dickens.

<< Per rispondere alla tua domanda. >> disse la figura.

<< Ma.. io non ti ho fatto nessuna domanda. >> replicai confusa.

<< Lo hai fatto, invece. Per molto tempo e sempre osservandomi. >> ribatté lei senza perdere nemmeno per un secondo quel sorriso rassicurante e ferino al tempo stesso.

<< E cosa ti avrei chiesto? >>

Per tutta risposta la creatura si alzò. Quando fu in piedi risultò essere ancora più alta di quel che pensavo. Senza produrre il minimo rumore venne a sedersi sul letto.

Non indossava abiti e da così vicino vidi che la sua pelle era illuminata da una luce fioca e cangiante, come se sotto di essa fosse racchiuso un piccolo universo. I suoi occhi invece erano uno diverso dall’altro: il sinistro era grigio come se dentro vi si agitasse un mare in tempesta, mentre il destro era verde come l’erba di un prato mossa dal vento.

<< Lascia che ti dica perché “qui” è il tuo posto. Lascia che te lo mostri. >> sussurrò.
Le sue parole furono seguite da un gesto vago con una mano dalle dita affusolate e la mia camera svanì come se non fosse mai esistita.

Mi ritrovai improvvisamente alle pendici di un profilo a me molto famigliare. La vetta che sovrastava la mia città si ergeva davanti ai miei occhi come non l’avevo mai vista. Fui talmente rapita da quella maestosa visione da scordarmi quasi della mia compagna di viaggio, finché essa non parlò nuovamente.

<< Ti dicono che qui non c’è niente, vero? >> esordì. << Allora tu chiedi ai tuoi amici se hanno mai visto i monti all’alba, quando danno loro il buongiorno regalandogli un paesaggio con cui riempirsi gli occhi per il resto della giornata. >> disse, indicandomi con un gesto del braccio il paesaggio davanti a me.

La montagna che avevo di fronte iniziò a mutare.

Il sole sorse a oriente tingendo di sfumature rosate le sue creste, creando contrasti di chiari e scuri che sottolineavano ogni piccola venatura e ogni crepaccio, dando vita alla roccia con un’esplosione di luce calda e dorata. Chiunque in quel momento l’avesse guardata con attenzione avrebbe potuto dire che fosse viva, guizzante, mentre la stella del mattino le faceva cambiare continuamente aspetto. Bella e imponente come una regina d’altri tempi.

<< Chiedi loro se li hanno mai visti al tramonto. D’inverno non c’è spettacolo più bello!>> proseguì la creatura facendo un altro cenno.

La luce cambiò di nuovo e la neve comparve ammantando le pendici e mutando colore, trasformandosi in puro oro colato mentre un cielo delle più ricche sfumature di cobalto faceva da sfondo. Se si provasse mai a dare un’immagine all’infinito del mondo, questa sarebbe quella più adatta, perché si viene avvolti da qualcosa di etereo, che le sole parole non possono cogliere e che esula da ogni concetto che la mente può intendere.

<< Hanno mai visto i monti avvolti dal buio? >>

A quelle parole la notte calò improvvisa mentre una pallida e sfolgorante luna piena brillava a rischiarare la volta. Il silenzio si fece ancora più presente mentre osservavo quasi incredula i crinali e le cime, mentre seguivo i profili delle creste fino a quando questi non si confusero con il cielo e le stelle, dandomi la sensazione che un cuore solo non bastasse a contenere tutta quella meraviglia, che un paio di occhi soli non fossero sufficienti ad abbracciare tutta quella vastità.

<< Hanno mai seguito l’evolversi delle stagioni? Quando in primavera i pendii si coprono di vita, di verde e di pioggia? Quando l’aria fresca è pregna di aromi, di resina, di acqua e di terra? >> decantò la presenza.

La brezza si alzò leggera e piacevole, scompigliandomi i capelli e regalandomi un profumo che nessuna preziosa boccetta di vetro avrebbe mai potuto imbrigliare.

<< Hanno mai ascoltato il loro silenzio? Fatto di rami mossi dal vento, foglie che cadono in autunno, uccelli che cantano d’estate? Di echi di passi e di fatica? Del rumore dei cuori rinvigoriti, che battono mentre metro dopo metro si avvicinano alla vetta? >>

Com’era successo per la mia stanza, anche i piedi della montagna scomparvero e mi ritrovai sulla cima. Davanti a me si stendeva un mare di nuvole dalle forme cangianti mentre il mondo si spiegava tutto intorno come un suddito al cospetto del proprio sovrano.

Erano talmente tante le emozioni provate in quel momento, che le lacrime, ben presto, mi punsero gli angoli degli occhi e un nodo in gola mi serrò il respiro. Mi voltai verso la creatura che adesso sedeva in silenzio al mio fianco.

<< Credo che tu ora abbia la tua risposta. >> disse dopo un istante con voce dolce.

<< Ma tu chi sei? >> chiesi con voce rotta.

<< Io sono la figlia della montagna. >> rispose finalmente, tornando poi a volgersi verso l’orizzonte con sguardo sereno.

Mi rigirai nel letto riaprendo le palpebre. Non era passato molto tempo da quando mi
ero addormentata e il tramonto risplendeva ancora sulle montagne. Ripensando al sogno appena fatto mi alzai per chiudere la finestra. Nel farlo, mi resi conto che non l’avevo mai aperta e fui ancora più sorpresa nel trovare, sopra al davanzale, un sottile strato di sabbia dai colori iridescenti. Forse, dopo tutto, non era stato solo un sogno.

Il giorno dopo, quando presi un caffè con un mio vecchio compagno di liceo, alla sua domanda sul perché desiderassi restare in quella città, seppi senza indugio cosa rispondergli.

<< Perché questa è casa mia. Perché sono una figlia della montagna. >>

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ma, 2015-05-05

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